Aristotele

La vita
La filosofia prima: la Metafisica
La logica: il principio di non contraddizione
La classificazione delle scienze
Sostanza e accidente
Materia e forma, atto e potenza
Il mondo fisico
L’anima come forma della vita
La politica e la virtù

La vita
Aristotele nacque a Stagira nel 384 a.C. All’età di 17 anni si recò ad Atene per entrare nell’Accademia platonica, nella quale rimase per vent’anni e svolse pure attività d’insegnamento. Nel 335, insieme a Teofrasto, insegnò nel Liceo di Apollo, nel quale raccolse una serie di discepoli e, da una passeggiata presente nel Liceo (peripatos), prese il nome la sua scuola, appunto il Peripato. Aristotele fu accusato di empietà e preferì allontanarsi da Atene piuttosto che consentire agli ateniesi di compiere un secondo crimine nei confronti della filosofia.

La filosofia prima: la Metafisica
Di Aristotele sono giunti fino a noi una marea di scritti. Nell Protrettico, indirizzato al re di Cipro, la filosofia viene vista come necessaria: se si ritiene che si debba filosofare la necessarietà della filosofia è ovvia, ma allo stesso modo se si ritiene che non lo si debba fare bisognerà comunque filosofare per dimostrare che non bisogna filosofare. Gli scritti di Aristotele, a differenza di quelli di Platone, sono più degli appunti, con lo scopo di fare da confaccio alle lezioni o di riassumerne alcuni punti essenziali, presupponevano quindi un completamento orale che purtroppo per noi è irrimediabilmente perso.
Il nome metafisica era sconosciuto ad Aristotele, che nelle sue opere parlava piuttosto di filosofia prima, ed è stato dato all’opera più famosa di Aristotele da Andronico per uno dei seguenti motivi: o perché questi scritti trattavano di cose che andavano oltre la fisica o perché erano da collocarsi dopo lo la Fisica, altro scritto aristotelico.
La Metafisica di Aristotele si apre con la celebre affermazione “tutti gli uomini tendono per natura alla conoscenza”. L’uomo ha in comune con gli altri animali la possibilità di provare sensazioni, fra queste sensazioni Aristotele attribuisce maggiore importanza alla vista e all’udito. La vista è quella che più di tutte le altre ci consente di percepire le differenze ed è inoltre slegata dall’utile poiché si può guardare anche solo per il semplice piacere di vedere le cose. L’udito è il senso attraverso il quale ci vengono impartiti gli insegnamenti e quindi impariamo. La memoria è propria solo di alcune specie animali e consente di conservare le percezioni. L’uomo si differenzia da tutti gli altri animali poiché è in grado di possedere l’esperienza, ossia molti ricordi della medesima cosa: essersi bruciati una volta con il fuoco non è esperienza, ma dopo molte percezioni simili si può affermare che il fuoco in linea di massima brucia. Dall’esperienza nasce la techne (la tecnica) che è caratterizzata dal fatto di avere come oggetto della conoscenza l’universale, infatti registrare che una determinata medicina ha guarito Socrate è esperienza, mentre rendersi conto che quella determinata medicina è in grado di guarire ogni singolo caso simile a quello di Socrate è medicina e quindi una tecnica, possedere la tecnica equivale a possedere la spiegazione del perché è successa una determinata cosa. Al di sopra di queste tecniche che hanno come obbiettivo l’utile, si colloca la sophia, ovvero il conoscere per il conoscere, il conoscere fine a se stesso, che ha come oggetto la conoscenza delle cause prime di tutte le cose. Ma per potersi dedicare a questo tipo di studi occorre quello che in greco si chiama scholè, ossia tempo libero, infatti chi ha il problema della fame non può certo dedicarsi a queste cose.
Aristotele individua nella meraviglia ciò che spinge l’uomo verso la ricerca filosofica. La meraviglia consiste nella capacità di non rassegnarsi alla realtà , nel non darla per scontata, nel chiedersi perché le cose avvengono in un modo piuttosto che in un altro.

La logica: il principio di non contraddizione
Il linguaggio per Aristotele assume una notevole importanza, egli lo studia per individuare con quali termini si deve esprimere una scienza. Egli è a metà tra una posizione naturalistica e una convezionalistica del linguaggio. Aristotele asserisce che le affezioni dell’anima (ossia le percezioni di oggetti reali) sono uguali in tutti gli uomini e non si possono modificare, mentre i termini per indicarle sono frutto di una convezione e si potrebbe anche decidere di usare altri termini per indicare la stessa cosa. Una scienza deve parlare attraverso proposizioni, ovvero connessioni di termini, poiché soltanto con le connessioni di termini si può generare il vero e il falso, altrimenti non ravvisabili nel singolo termine. Le proposizioni possono essere universali o particolari, universale è ad esempio “tutti gli uomini sono mortali” poiché riguarda tutti gli uomini, mentre particolare è “qualche uomo è mortale” poiché riguarda solo qualche uomo. Le proposizioni possono anche essere distinte in proposizioni del possibile (ossia di ciò che non è ma potrebbe essere), del contingente (ossia di ciò che è ma potrebbe anche non essere), dell’impossibile (ossia di ciò che non è e non può essere) e del necessario (ossia di ciò che è e non può non essere). Le proposizioni sono collegate fra loro da rapporti di contraddittorietà o contrarietà: due proposizioni sono contraddittore quando sono necessariamente una vera e l’altra falsa, ad esempio “tutti gli uomini sono felici” e “qualche uomo non è felice”, mentre sono contrarie quando non possono essere entrambe vere ma possono essere entrambe false, ad esempio “tutti gli uomini sono felici” e “nessun uomo è felice”.
Partendo da queste distinzioni Aristotele studia come sia possibile formulare dei ragionamenti corretti e per questo motivo egli è considerato l’inventore della logica formale. Egli, negli Analitici Primi, ravvisa la forma del giusto ragionamento nel sillogismo ossia il ragionamento concatenato. Nei suoi esempi Aristotele sostituisce i termini universali con le lettere A, B, C e così via, in modo tale da includere tutte le possibili frasi affermative o negative, questo per far sì che la verità o falsità di un’affermazione non dipendesse dai termini usati ma risultasse come effetto necessario del metodo utilizzato. Un sillogismo è composto da tre proposizioni, le prime due sono dette premesse e la terza conclusione. Per essere valido un sillogismo deve presentare nelle due premesse due termini detti estremi ed uno detto medio che li collega, per esempio: “tutti gli animali sono mortali”, “tutti gli uomini sono animali”, “tutti gli uomini sono mortali”, in questo caso il termine medio è “animali” e nella prima proposizione fa da soggetto, nella seconda invece fa da predicato. Aristotele fa presente che esistono anche altri due tipi di sillogismo, uno nel quale il termine medio è predicato in entrambe le premesse e un altro nel quale invece fa da soggetto in entrambe le premesse, tuttavia soltanto il primo tipo di sillogismo è quello proprio della scienza, poiché è l’unico in grado di rispondere al perché. Il sillogismo ha la prerogativa di trasferire la verità dalle premesse alla conclusione.
Ovviamente molti sillogismi partono da premesse che sono a loro volta conclusioni di altri sillogismi. Così facendo si potrebbe andare indietro all’infinito, ma ciò annullerebbe ogni pretesa di conoscenza. Per evitare che ciò accada bisogna allora rintracciare alcune premesse che non sono dimostrate da altro. A questa funziona secondo Aristotele adempie l’intelletto, mediante il quale noi percepiamo l’universale per via non dimostrativa ma intuitiva. Aristotele distingue due tipi di principi che stanno alla base di ogni scienza, i principi propri e quelli comuni: i primi sono ad esempio l’assunzione dell’esistenza degli elementi su cui si lavora, le definizioni e i postulati i quali richiedono che si possano compiere determinate operazioni; i principi comuni, detti anche assiomi, invece hanno un carattere di autoevidenza e sono ad esempio “il tutto è maggiore delle parti”.
Il principio fondamentale da cui nessuna scienza può essere separata è il principio di non contraddizione, di cui Aristotele da due formulazioni: la prima è “è impossibile che la stessa cosa sia e non sia al tempo stesso e sotto lo stesso aspetto”, mentre la seconda formulazione è “è impossibile che la stessa cosa appartenga e non appartenga nello stesso tempo alla stessa cosa”, più o meno come il principio del terzo escluso “A o è B o non è B”. Il principio di non contraddizione secondo Aristotele non è dimostrabile, tuttavia lo si può argomentare mostrando le assurdità che deriverebbero dalla negazione di esso.
Secondo Aristotele è compito proprio della filosofia quello di rintracciare questi principi comuni che stanno alla base delle scienze naturali.

La classificazione delle scienze
Nella tecnica d’indagine aristotelica, che prevede la discussione delle tesi precedentemente elaborate da altri pensatori, la dialettica viene declassata dalla posizione che le aveva attribuito Platone di massima forma del sapere, per ritornare ad essere una tecnica di discussione. Aristotele inoltre si sofferma sulla differenza fra la dialettica e la retorica, quest’ultima infatti ha come obbiettivo la persuasione degli ascoltatori a prescindere dal carattere di veridicità di ciò che viene detto. Egli distingue tra oratoria deliberativa, che ha come oggetto il futuro in quanto serve a convincere sulle decisioni da prendere, oratoria giudiziaria, che ha come oggetto il passato in quanto cerca di convincere che un delitto passato è stato o non è stato fatto, e oratoria epidittica, che ha come oggetto il presente in quanto il suo obbiettivo è lodare o biasimare qualcuno. Fondamentale per un retore è la capacità di costruire argomentazioni che appaiano convincenti.
Aristotele distingue due tipi di scienze, quelle che hanno come oggetto il necessario e quelle che hanno come oggetto il possibile. Le prime sono le scienze teoretiche, esse hanno come fine quello di giungere alla verità, e sono tre: la matematica, la fisica e la filosofia prima, che studia l’essere in quanto essere e sarà successivamente chiamata metafisica o ontologia. Il fatto di classificare la fisica come scienza lo allontana nettamente da Platone il quale aveva sostenuto l’impossibilità di conoscere il mondo fisico. La matematica studia le cose sotto l’aspetto della quantità, il matematico quindi prescinde dal colore, dalla durezza e cose varie, per guardare tutto soltanto dal punto di vista della quantità. È nel campo dell’aritmetica e della geometria che diventa concepibile l’infinito, soltanto nella forma di infinita divisibilità e infinita addizionabilità, infatti contrariamente all’opinione diffusa secondo cui oltre l’infinito non c’è nulla, secondo Aristotele l’infinito è quel qualcosa oltre cui c’è sempre qualcos’altro, per Aristotele infatti l’infinito non è mai in atto ma sempre in potenza. Il secondo gruppo di scienze è quello delle scienze pratiche e poietiche, ossia dell’azione e della produzione. La prassi infatti è fine a se stessa, mente la poiesis ha il suo fine nell’oggetto prodotto. Anche la poesia per Aristotele è una scienza poietica in quanto mira a produrre forme, la poesia in Aristotele non conoscerà quella svalutazione che aveva conosciuto in Platone, anzi Aristotele affermerà che la poesia è superiore alla storia, poiché mentre la storia descrive il particolare, la poesia descrive l’universale. La poesia per Aristotele nasce dalla tendenza umana all’imitazione, la poesia è quindi l’imitazione dell’armonia e del ritmo.
La scienza dell’essere in quanto essere non studia un tipo particolare di essere, non studia quindi gli oggetti e le loro caratteristiche determinate, ma li studia in quanto sono, ossia per il semplice fatto di essere.

Sostanza e accidente
Secondo Aristotele bisogna fare attenzione approcciandosi alla filosofia alle ambiguità del linguaggio, egli afferma infatti che “l’essere si dice in molti modi” (to on pollakòs lèghetai), infatti di Socrate io posso dire cos’è, com’è, dov’è, quant’è. Aristotele distingue quindi dieci categorie di essere, la prima di queste è la categoria di sostanza, le altre sono quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, avere, agire e subire. La categoria di sostanza ha un’importanza maggiore rispetto alle altre, poiché l’unica che esiste di per sè, mentre le altre esistono in quanto si appoggiano ad una sostanza: l’essere filosofo di Socrate (qualità), non può esistere senza la sostanza Socrate, che invece potrebbe tranquillamente esistere pur senza essere filosofo, così come il giallo non può esistere senza una sostanza gialla. Aristotele accusa Platone di avere fatto esistere di per sè i predicati, di aver sostenuto che il tre esiste in sè e non perché esistono gruppi di tre cose, che il bianco esiste in se e non perché esistono oggetti bianchi. Aristotele quindi distingue fra sostanza, ossia ciò che è e non dipende da altro, da accidente (tutte le altre categorie), ossia ciò che è in quanto è proprietà di una sostanza.
Cosa si può definire allora, per Aristotele, sostanza? Sicuramente gli animali, le piante, i corpi celesti, ma anche tutti le produzioni artigianali dell’uomo.

Materia e forma, atto e potenza
La sostanza per Aristotele è un synolon, un sinolo di materia e forma: se devo definire che cos’è una sfera di bronzo non posso prescindere dal dirne la materia ma neanche la forma. La forma tuttavia è molto più importante della materia, infatti se una sfera di metallo perde un po’ della sua materia resta pur sempre una sfera di metallo, mentre se perde la forma non resta niente, la forma è per questo motivo la causa primaria della sostanza, è l’essenza, l’idea platonica, ciò che una cosa propriamente è. Agli interpreti si è presentato il problema di capire se la forma fosse particolare o universale, infatti se la mia forma è “uomo”, come può questa stessa forma essere parimenti la forma di qualsiasi altro uomo? Si è quindi avanzata l’ipotesi che la forma sia specificamente identica nei vari casi particolari appartenenti ad una stessa specie, ma numericamente diversa.
Tutte le sostanza hanno come proprietà fondamentale quella di essere soggette a mutamento, Aristotele individua quattro tipi di mutamento: 1) quello sostanziale, ossia il nascere e perire delle cose, 2) quello qualitativo, ossia il riscaldarsi o il raffreddarsi, 3) quello quantitativo, cioè aumentare e diminuire, e 4) infine il mutamento di luogo al quale sono riconducibili anche i tre precedenti. Nella Fisica, Aristotele definisce la natura come “principio e causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente”, le sostanze naturali sono pertanto quelle che posseggono in se questo principio. Le sostanze sia naturali che artificiali sono il risultato di un processo di generazione a proposito del quale Aristotele introduce i concetti di potenza e atto.
Per Aristotele la materia è potenza poiché è priva di forma e può riceverla, un blocco di bronzo ad esempio può essere modellato per tirarne fuori una sfera, ma può anche essere modellato per farne una spada o un elmo. La materia può ricevere una determinata forma come può non riceverla, tuttavia non può ricevere qualsiasi forma, un seme di quercia ad esempio non può diventare una betulla. La potenza si differenzia dalla possibilità, poiché la potenza è permanente, mentre la possibilità può essere accidentale. Quando la materia acquista una determinata forma si dice che è passata all’atto. Secondo Aristotele l’atto è superiore alla potenza, infatti se io voglio definire una potenza devo anche esprimere l’atto di cui è potenza, ad esempio se prendo un seme di quercia devo dire che è “quercia in potenza”, facendo riferimento alla quercia, ma posso dire che è “seme in atto”, senza fare riferimento a nient’altro. L’atto inoltre antecede la potenza anche nel tempo, infatti è costruendo che s’impara a costruire, è costruendo in atto che io acquisto la possibilità di costruire in potenza che mi permette di essere definito un costruttore anche se in quel momento non sto costruendo. Il divenire può essere quindi definito come un passaggio dalla potenzae all’atto, non come un passaggio dal non essere all’essere, ma dall’essere in un modo all’essere in un altro modo.

Il mondo fisico
Secondo Aristotele per definire il perché di una cosa, non è sufficiente indicarne soltanto una causa, come aveva fatto Platone nell’individuare questa causa nel fine e così avevano fatto i fisiologi nell’indicare soltanto la causa materiale. Aristotele nella Fisica individua quattro tipi di causa: 1) la causa materiale, infatti una sedia di legno non può esistere senza il legno di cui è composta, 2) la causa formale, infatti non può esistere nemmeno senza la forma, 3) la causa efficiente, senza un falegname che la costruisce la sedia non esiste, e 4) la causa finale, infatti il falegname doveva pur avere un progetto in mente. Essendo le tecniche un’imitazione della natura, Aristotele afferma che se queste quattro cause sono ravvisabili nelle tecniche, allora ciò dovrà esser valido anche per la natura.
Secondo Aristotele il mondo fisico è composto dai quattro elementi che aveva già individuato Empedocle, ossia terra, acqua, aria e fuoco. Aristotele attribuisce ad ognuno di questi elementi un suo luogo naturale, in base al peso, così si spiega perché un sasso lanciato in aria ricade verso terra e perché il fuoco va verso l’alto. Così Aristotele spiega anche il suo geocentrismo: infatti, la terra essendo il corpo più pesante occuperà la posizione centrale dell’universo, che di conseguenza non può essere infinito poiché in uno spazio infinito non sarebbe rintracciabile un centro. Allo stesso modo non potrebbe esistere un secondo mondo, in quanto se esistesse sarebbe anch’esso composto dagli stessi elementi della terra e pertanto tenderebbe ad occupare lo stesso posto della terra. Per quanto riguarda i corpi celesti Aristotele afferma che questi sono legati ad una serie di sfere concentriche che si muovono circolarmente intorno alla terra, la perfezione del moto circolare ne garantisce l’incorruttibilità a differenza delle sostanze del mondo sublunare che si muovono in contrasto fra loro. Per spiegarne la composizione Aristotele introduce un quinto elemento, l’etere.
Come ogni movimento anche quello dei corpi celesti richiede una causa, ma se anche questa causa si muove a sua volte ne richiederà un’altra, bisogna quindi ad un certo punto arrestarsi e trovare una causa prima del movimento. Aristotele la ravvisa nel motore immobile, da lui identificato con la divinità. Il motore immobile deve necessariamente essere atto puro, perché se fosse potenza potrebbe muovere e non muovere, ma così non si spiegherebbe il moto eterno dei corpi celesti. Ma in cosa consiste l’azione del motore immobile sui corpi celesti? Infatti se è atto puro, manca di materia, ma mancando di materia non può agire come causa efficiente, in quanto soltanto ciò che è corporeo può agire come causa efficiente, bisogna quindi ammettere che influisce come causa finale, il motore immobile aristotelico è quindi ciò a cui tutti i corpi celesti tendono, è un oggetto di amore. E come passa il suo tempo questo motore immobile? Aristotele afferma che la sua attività non può che essere l’attività che anche per l’uomo è la più alta: il pensiero. Egli, il motore immobile, penserà quanto di più perfetto è possibile, quindi penserà necessariamente se stesso, il suo sarà quindi un pensiero di pensiero.
Il motore immobile è per Aristotele garante dell’ordine dell’universo, ma non della sua esistenza, come un generale per il suo esercito. Il mondo per Aristotele è coeterno al motore immobile.
La causa dei fenomeni naturali va quindi ravvisata nel fine. In un passo della Politica Aristotele ravvisa il fine delle specie animali nell’uso alimentare che l’uomo può farne, anche se più generalmente egli vede il fine di ogni specie nella specie stessa, cioè nel far sì che la specie si riproduca nonostante i singoli elementi periscano. Aristotele critica Anassagora il quale aveva sostenuto che l’uomo è il più intelligente degli animali poiché ha le mani, affermando che l’uomo ha le mani poiché è il più intelligente, è infatti dal possesso di facoltà che si generano le condizioni che permettono di utilizzarla e le mani sono la condizione necessaria perché si realizzi la più alta espressione dell’intelletto umano, la tecnica. Allo studio dei viventi Aristotele dedica molti scritti, egli afferma che le parti costitutive dei viventi sono di due tipi: 1) omeomere, come la carni e le ossa che divise restano carne e ossa, e 2) non omeomere, come la mani che divise non restano mani, ma dita e così via. È dalla presenza di maggiori parti non omogenee che si identifica il grado di complessità di un essere vivente.

L’anima come forma della vita
Un essere vivente è caratterizzato dalla presenza di qualcosa che gli da vita, questo qualcosa è l’anima, che i predecessori di Aristotele avevano indicato come principio di movimento o principio dell’intelligenza, lasciando però così fuori dall’essere vita le piante prive sia di movimento sia di pensiero. Aristotele afferma che l’anima è l’atto di un corpo che ha la vita in potenza, è la forma del corpo. Per Aristotele l’anima non è come per Platone un’insieme di parti, bensì un’insieme di funzioni, disposte secondo una precisa gerarchia che fa si che gli esseri dotati dei livelli superiori posseggono anche quelli inferiori ma non viceversa. La prima funzione dell’anima è quella nutritiva e riproduttiva, propria delle piante e di tutti gli animali (uomo compreso), la seconda funzione è quella sensitiva, propria solo degli animali e dell’uomo, e la terza è quella intellettiva propria solo dell’uomo.
La percezione nasce dall’incontro di un senso che ha in potenza la facoltà di percepire e un sensibile che ha in potenza la facoltà di essere percepito, nella percezione senso e sensibile fanno tutt’uno, così è chiaro che i sensi non possono sbagliare riguardo ai sensibili che gli competono. L’errore nasce riguardo ai sensibili comuni a più sensi, come il movimento, la grandezza e simili. Aristotele introduce anche un senso comune, che non è proprio un senso e si va ad aggiungere ai cinque canonici, ma svolge la funzione di coordinare le sensazioni avute con gli altri sensi. Della percezione rimane traccia anche quando l’oggetto sensibile che l’ha generata non è più presente in carne ed ossa, è su queste immagini, già prive del loro supporto sensibile che l’intelletto umano agisce per cogliere le forme intellegibili, queste immagini hanno anche una notevole importanza per quanto riguarda i processi di appetizione, infatti l’appetizione nasce dal ricordo di un oggetto desiderato anche quando questo non è presente. Allo stesso modo dei sensi funziona l’intelletto, prerogativa del solo genere umano, così Aristotele presuppone l’esistenza di un intelletto in potenza, il cui passaggio all’atto è garantito da un intelletto attivo o produttivo che agisce analogamente alla luce per le cose sensibili, è infatti grazie alla luce che le cose sensibili si rivelano e diventano coglibili con la vista. Alcuni commentatori di Aristotele hanno individuato questo intelletto attivo nel motore immobile, mentre altri ritengono che Aristotele si riferisse all’intelletto del genere umano in generale.

La politica e la virtù
Per Aristotele l’uomo è un animale politico: anche altri animali come api o formiche vivono in comunità, ma soltanto l’uomo è in grado di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto ed è l’unico in grado, grazie al linguaggio, di esprimere queste sue percezioni. La polis quindi è una necessità strettamente legata alla natura dell’uomo che di per sè non è autosufficiente. La famiglia tipo per Aristotele è composta da un uomo, una donna, i figli e gli schiavi. Questo ci fa capire come per lui fosse legittima la schiavitù, sebbene egli distingue tra una schiavitù di tipo accidentale, ad esempio un uomo reso schiavo in seguito ad una battaglia, ed una schiavitù di tipo naturale, infatti esistono persone per natura prive di quella prerogativa propria dell’uomo, ossia quella di deliberare, queste persone trovano una loro utilità solo sottoponendosi ad un padrone che prenda per loro le decisioni. Oltre alla legittimazione della famiglia, Aristotele legittima anche la proprietà privata, sebbene solo nel caso che sia finalizzata al vivere agiatamente e trova innaturale uno spropositato accumulo di ricchezze fine soltanto a se stesso. Si discosta dal modello di città proposto da Platone nella Repubblica, infatti egli sosteneva che le terre comuni non avrebbero dato frutti poiché nessuno sarebbe stato incentivato a coltivare una terra che non gli apparteneva. Per quanto riguarda la forma di governo Aristotele si mostra favorevole ad un miscuglio di aristocrazia e democrazia, un sistema in cui l’accesso alle cariche fosse riservato ai migliori ma le decisioni venissero prese dalla totalità dei cittadini. Inoltre nella migliore costituzione, le attività lavorative sarebbero state affidate interamente agli schiavi, così ai cittadini sarebbe rimasto molto tempo libero (scholè) per dedicarsi al perfezionamento morale e all’attività politica.
Per Aristotele compito dell’etica non dev’essere quello di formulare massime comportamentali, ma quello di rintracciare il fine dell’uomo e quali sono le condizioni necessarie per realizzarlo. Un fine per essere veramente un fine dev’essere ricercato come fine in sè e non in vista di qualcos’altro.
Aristotele ravvisa questo fine nella felicità (eudaimonìa), in quanto la ricchezza, il potere, la salute sono sì obbiettivi che l’uomo tenta di raggiunge ma comunque in vista della felicità, sono quindi più che altro dei mezzi. La libertà dell’uomo sta nello scegliere i mezzi con i quali perseguire questa felicità, che non si presenta come un dono ricevuto dall’alto, ma come il risultato di una vita attiva. Per l’uomo non può esistere alcuna felicità se non l’esercizio di quelle facoltà che lo distinguono dagli altri animali, la vita dell’uomo quindi per essere felice deve consistere di attività ragionate, ma bisogna comunque tenere presenti i beni del corpo se si vuole realmente far essere in atto la felicità, il re Priamo infatti, per quanto potesse essere virtuoso e felice della sua virtuosità, non si può dire compiutamente felice avendo visti morire tutti i suoi figli. Aristotele definisce la felicità come “attività dell’anima secondo virtù”, per Aristotele la virtù è un’abitudine, ovvero una disposizione costante, acquisita mediante l’esercizio, a comportarsi in un determinato modo. La virtù etica ad esempio è la disposizione costante a scegliere il giusto mezzo, il coraggio quindi è la disposizione costante a saper scegliere il giusto mezzo fra viltà e temerarietà. Tuttavia il concetto di giusto mezzo aristotelico può trarre in inganno e far pensare che per Aristotele il giusto stia sempre a metà fra due estremi. Questa conclusione però è tremendamente sbagliata perchè quando Aristotele parla del giusto mezzo nell’Etica Nicomachea, dice chiaramente che il giusto mezzo tra bene e male è il bene e non una via di mezzo fra i due. Quando Aristotele parla di giusto mezzo in realtà si riferisce al giusto in sé.
Tra le virtù etiche Aristotele da grande importanza alla giustizia, distinguendo una giustizia distributiva, che consiste nel dare a ciascuno ciò che gli compete secondo i meriti, e una correttiva o commutativa, consistente nel regolare i contratti, un furto ad esempio è una sorta di contratto forzato, giustizia sarà quindi far pagare al ladro una pena pari al danno arrecato.
Accanto alle virtù etiche, Aristotele colloca le virtù dianoetiche, che riguardano non la sfera comportamentale ma quella della ragione. Esse sono l’arte o tecnica, la saggezza, la scienza, l’intelletto e la sapienza. La virtù dianoetica è la disposizione a fare sempre nel migliore dei modi una determinata cosa, nel caso dell’arte ad esempio la produzione di oggetti, nel caso della saggezza la distinzione tra bene e male, nel caso della scienza a svolgere in modo corretto le dimostrazioni e nel caso dell’intelletto a cogliere i principi. La sapienza è l’unione tra intelletto e scienza, infatti cogliendo solo i principi non si danno dimostrazioni ma non si possono dare dimostrazioni senza cogliere i principi. L’attività propria del sapiente è la theorìa, ossia la contemplazione, questo lo avvicina al dio per due moptivi: perché le cose che contempla sono cose divine e perché la contemplazione è l’attività propria della divinità. Il sapiente deve avere molto tempo libero, in questo modo viene a crollare quello stretto legame ipotizzato da Platone fra politica e filosofia.
La scuola filosofica ancora una volta è il luogo privilegiato per lo studio della filosofia, infatti nessuno secondo Aristotele vorrebbe vivere senza amici. Egli distingue la vera amicizia in cui l’amico ha valore di per sè, dalla falsa amicizia in cui l’amico ha valore soltanto per l’utilità o il piacere che se ne può trarre.

Questa voce è stata pubblicata in Filosofi, Filosofia Antica. Contrassegna il permalink.